I titoli clamorosi sono accorgimenti idonei a sorprendere i lettori distratti. E in proposito si direbbe che l’efficacia di un titolo possa essere stimata in proporzione agli stati d’ansia procurati. Così, coi tempi che corrono, gli annunci di recrudescenza degli episodi di cannibalismo e delle “morti improvvise” risultano senz’altro ansiogeni per tutta la comunità suinicola.
Certo, sono fatti storici, noti da decenni, tuttavia nessuno aveva ancora maturato esperienze tanto frustranti e traumatiche per intensità e gravità dei fenomeni. La sensazione diffusa testimonia per il graduale peggioramento della situazione, quasi in maniera lineare, e per l’aumento dei danni, quasi in maniera esponenziale. D’accordo, questa tendenza viene denunciata un po’ in tutti i paesi a vocazione suinicola, eppure, quando si esamina di fino la questione, emerge la nostra peculiarità e il nostro primato in materia di drammaticità delle manifestazioni. Insomma, eventi gravi, estesi e diffusi come quelli denunciati nelle aree d’allevamento del suino pesante destinato alla trasformazione, non sembrano trovare pari a livello planetario.
Se il riferimento è alle morti improvvise per torsione intestinale, o sindrome emorragica intestinale (Hemorrhagic bowel syndrome), una ragione intuitiva c’è. Infatti, si tratta di un fenomeno la cui manifestazione inizia a circa 70-80 kg di peso e perdura per tutta la vita dell’animale, dunque i nostri suini pesanti sono esposti a questo pericolo per almeno due o tre mesi in più rispetto ai suini da macelleria del resto del mondo. Però questa ragione non basta, visto che non spiega la recrudescenza degli ultimi anni e tantomeno l’aumento del differenziale di mortalità fra la nostra e le altre suinicolture. Dunque c’è dell’altro e deve trattarsi di una nostra prerogativa esclusiva, tipica, del territorio, o del tipo di produzione.
Ebbene, questa ragione c’è e come tale giustifica il titolo sia per la carica ansiogena, sia per l’esplicita previsione di peggioramento della situazione nel futuro prossimo. Ma cominciamo dall’inizio e in particolare da un solido convincimento in materia di benessere e soddisfazione alimentare del suino: la forzatura alimentare. Tutti, chi più chi meno, concordiamo: si forza un maiale quando la distribuzione dell’alimento è a volontà. Ma il termine forzatura delinea un’azione negativa, quasi riprovevole e dunque l’alimentazione a volontà diventa una sorta di violenza esercitata sul maiale. Ecco allora che la restrizione alimentare acquisisce un significato positivo e il suo esercizio diventa raccomandabile proprio allo scopo di annullare gli effetti della forzatura. Insomma, razionando l’alimento assicuriamo anche lo stato di benessere al nostro maiale; un tutt’uno. Ma per quanto la convinzione possa risultare rassicurante, non è detto che sia anche vera.
Proviamo con l’oca: l’oca razionata mangia meno mais di quanto lei gradirebbe mangiare, l’oca alimentata a volontà mangia tutto il mais necessario per raggiungere la sazietà e finalmente l’oca forzata è costretta a mangiare più mais di quanto lei avrebbe gradito. Della liceità di quest’ultima pratica si può e si deve discutere, ben sapendo che il benessere dell’oca è incompatibile con il piacere procurato dalla degustazione di un “foie grass”.
Il nostro maiale però non si trova in questa situazione perchè nessuno intende contringerlo a ingerire più alimento di quanto lui stesso ritenga soddisfacente. Qui stiamo discutendo invece della liceità di una pratica volta a procurare la sazietà; un sostantivo sinomimo di appagamento alimentare e non di sregolatezza, o comunque di eccesso. Insomma, proprio di quel limite massimo stabilito dalla volontà e dal desiderio del suino, né più, né meno. A differenza dell’oca quindi, nessuno forza, o intenderebbe forzare il suino. Ma allora, se la sazietà - riabilitata come condizione di benessere - può essere raggiunta con la somministrazione dell’alimento a volontà, diventa interessante capire cosa implica il razionamento. Forse non contrasta alcuna pratica violenta, ma priva l’animale di quella quota di alimento che sarebbe stata necessaria per consentirgli il raggiungimento della sazietà. Brutalmente, il contrario di appagamento alimentare è soltanto fame. Poi che questa condizione di moderata privazione alimentare sia comunque necessaria ai fini sanitari, zootecnici, o tecnologici (e dunque assuma connotati virtuosi) è un’altra storia.
Ora, tutto ciò premesso e ristabilito, resta ancora da capire perché i nostri maiali sono sempre più aggressivi e sempre più esposti alla mortalità improvvisa. E allora ragioniamo di prescrizioni produttive (art 4, L. 13 febbraio 1990, concernente le razze, l’alimentazione e l’allevamento dei suini destinati al circuito della produzione tutelata per la preparazione del prosciutto di Parma) e in particolare del paragrafo riguardante le tecniche d’allevamento: “… sono finalizzate ad ottenere un suino pesante, obiettivo che deve essere perseguito assicurando moderati accrescimenti giornalieri, nonché la produzione di carcasse incluse nelle classi centrali della classificazioni CEE. A tal fine l’alimentazione dovrà essere distribuita razionata, …”. A quel tempo i tipi genetici presenti in Italia (sempre molto eterogenei; proprio come oggi!) realizzavano, in prossimità del potenziale massimo di crescita, un incremento medio di circa 850-900 grammi al giorno (nei 7 mesi circa del ciclo d’ingrasso di un suino pesante). Dunque il razionamento avrebbe dovuto moderare quel tasso di crescita a circa 700-750 grammi giornalieri, ovvero il massimo realizzabile mantenendo un peso della carcassa e del prosciutto ancora compatibili, ai 9 mesi di vita, con le prescrizioni e le richieste dell’industria.
Detta in altri termini, si trattava di circoscrivere la crescita potenziale (in ogni caso d’improbabile realizzazione per le interferenze sanitarie, ambientali, climatiche e pure manageriali) di circa il 15-20%. Poi il tempo passa, i suini evolvono, ma le prestazioni restano. Oggi, alleviamo dunque quasi tutte le genetiche disponibili sul mercato (proprio come nel 1990). Il fatto è che il potenziale di crescita di buona parte di questi ceppi supera abbondantemente il chilogrammo giornaliero e per alcuni si colloca in prossimità dei 1200 grammi (sempre in un ciclo d’ingrasso tipico). Però quel potenziale deve essere comunque represso con il razionamento per non superare i soliti 700-750 grammi (sempre quelli del 1990). E così, se un tempo dovevamo contenere l’incremento giornaliero del 10-15%, oggi dobbiamo razionare l’alimento per comprimere la crescita di un 30-35%. Insomma, dobbiamo essere 2 e anche 2,5 volte più restrittivi di quanto non lo fossimo quella volta.
Il suino attuale, allevato come suino pesante all’italiana, patisce quindi una fame d’intensità 2-2,5 volte superiore rispetto ai progenitori allevati alla fine del secolo scorso. Il suino attuale è dunque più nervoso, più competitivo e più stimolato a comportamenti aggressivi al fine di sfamarsi e ciò implica almeno due conseguenze gravi.
La prima solleva forti dubbi in materia di benessere animale e la seconda, inesorabile, implica un progressivo aumento del tasso di mortalità per torsione e sindrome emorragica intestinale. E le ragioni sono le solite: minore alimento disponibile, maggiore rivalità nell’accaparramento delle quote individuali, ingordigia, ingestioni di enormi quantitativi d’alimento nell’unità di tempo da parte dei capi dominanti, ritardata acidificazione gastrica, fermentazioni batteriche immediate con produzione di gas, ostacolo della motilità e rallentamento della peristalsi, lesioni emorragiche prodotte dalla pressione del gas, dislocazione di stomaco e intestino verso l’alto, pressione intra-addominale tale da comprimere l’arteria mesenterica craniale, rallentamento del flusso sanguigno, morte per torsione intestinale, oppure per insufficienza cardiaca, dispnea, o emorragia intestinale.
Certamente, il tutto potrebbe essere aggravato da fattori ambientali (un solo pasto giornaliero, spazi alla mangiatoia ridotti, sovraffollamento), alimentari (alti rapporti di diluizione con acqua, o siero; ampio uso di materie prime fermentescibili quali siero dolce liquido, melasso, biscotti) e igienici (proliferazione di batteri, muffe e lieviti nella vasca e nell’impianto di distribuzione). Per non parlare dell’indole peculiare del tipo genetico: nelle condizioni descritte può innervosire anche un suino tranquillo, ma se quel suino è già irrequieto per costituzione, la situazione in allevamento precipita. E a questo punto anche la previsione così “alla buona” espressa nel titolo, trova ampio supporto. Infatti, le genetiche mondiali evolveranno mantenendo le caratteristiche acquisite di qualità della carcassa e della carne, ma aumenteranno ancora il tasso di crescita. E noi saremo costretti a razionare ancora più severamente.
Dunque, oggi la situazione è più grave rispetto a ieri e domani sarà più grave rispetto a oggi. Il fenomeno potrà essere attenuato (ma senz’altro non superato) in un solo modo: scegliendo verri terminali compatibili con un tasso di crescita non molto dissimile da quello imposto al suino pesante italiano (un kg per giorno, o giù di lì). E il motivo lo sappiamo: il suino evolve, le prescrizioni no.