C’era una volta una scrofa diffusa in tutti i Paesi a suinicoltura avanzata. Qualche inflessione dialettale ne svelava la residenza temporanea: c’era la scrofa inglese, quella francese, l’italiana e così via, ma si trattava sempre dello stesso animale. Era sufficiente sfogliare un qualsiasi manuale d’allevamento, scritto in una qualsiasi lingua, per ritrovare raccomandazioni simili e suggerimenti analoghi. Il mestiere dell’allevatore era agevole e la discussione con i colleghi d’Oltralpe e d’Oltreoceano era favorita dalle comuni esperienze. Il nutrizionista e il mangimista poi trascorrevano giorni sereni: un mangime e un animale, dunque un mangime per tutti e a tutte le latitudini.
Oggi si ricordano quei tempi con un po’ di nostalgia: la scrofa planetaria non c’è più e al suo posto ne convivono tre. Si tratta di animali molto diversi, originari di tre aree geografiche lontane: la Danimarca, il Nord America e i Paesi Bassi. Non hanno interessi comuni e non parlano nemmeno la stessa lingua; capiscono e rispettano soltanto usi, costumi e idiomi del Paese d’origine. Con gli effetti della globalizzazione però il caos è totale, visto che quelle tre scrofe convivono nelle stesse regioni e addirittura negli stessi allevamenti. I responsabili li conosciamo: sono i genetisti delle case di selezione. Individui che hanno pensato bene di privilegiare alcuni caratteri e soltanto quelli ritenuti vantaggiosi all’industria suinicola della propria area geografica. E con queste premesse, lo sviluppo non poteva che sfociare nella baraonda attuale, visto che la scrofa ideale per la piccola e media azienda famigliare del Nord Europa, non poteva certo collimare con le esigenze della grande industria americana alle prese con diverse migliaia di capi e manodopera salariata (fra l’altro non sempre qualificata). Poi, come non bastasse, ci si è messo anche il mercato con l’aumento formidabile del costo delle materie prime. Senz’altro la richiesta di mais da parte dell’industria del bioetanolo ha concorso a quell’aumento dei prezzi, ma è anche vero che la zootecnia ha beneficiato poi del coprodotto di lavorazione: i DDGS. E questo ingrediente ha sovvertito proprio la tradizionale formulazione all’americana dei mangimi per scrofe.
Tutto ciò anticipato, resta il fenomenale aumento dei prezzi. E qui probabilmente noi europei non siamo ben attrezzati per comprendere le reazioni di un imprenditore americano all’impennata dei costi. Certo, l’impatto è stato planetario e anche da noi sono state messe in opera le contromisure: ricorso a materie prime alternative, lotta agli sprechi, riduzione dei margini di sicurezza per diversi nutrienti, definizione di più fasi d’allevamento con mangimi specializzati e di costo complessivo minore. Benissimo, ottime scelte, tutte ragionevoli e dall’effetto più o meno sostanzioso. Insomma, il tecnico europeo è stato spremuto a fondo e ha dato il meglio. Ma proprio questo è il fatto chiave: in Europa durante la tempesta dei prezzi la barca è stata governata dal tecnico, mentre negli Stati Uniti la barca viene sempre governata dall’amministratore. E questa è pure la causa prima di tante incomprensioni fra le due sponde dell’Atlantico. Da quella parte la gestione e il governo sono sempre appannaggio dell’amministrazione, mentre le questioni tecniche sono prerogative degli esperti in materie scientifiche. Da questa invece, le due responsabilità tendono a confondersi e così il tecnico affronta anche emergenze di mercato e il politico stabilisce le soglie massime dei contaminanti negli alimenti. In Nord America dunque, l’emergenza prezzi del 2007 viene affrontata nelle stanze dell’amministrazione. Lì si discute di tattica, ma soprattutto di strategie. E, passo dopo passo, ecco gli sviluppi: il mangime costa molto, bisogna ridurne il consumo, una quota di mangime equivale a un costo variabile e si tratta di quello necessario a coprire i fabbisogni di produzione, un’altra quota di mangime invece equivale a un costo fisso e corrisponde alla quota necessaria al mantenimento, ma se il buon amministratore deve controllare ossessivamente i costi fissi, la sua preoccupazione sarà quella di ridurre la quota di mangime necessaria al mantenimento. Ma il mantenimento è funzione del peso vivo e allora l’obiettivo sarà la riduzione di quel peso. Dunque la scrofa americana, quella governata dall’amministratore, doveva essere più leggera.
Negli stessi anni, ma anche un po’ prima, in Danimarca prendeva corpo invece la scrofa dei 30 e passa suinetti svezzati all’anno. Un animale formidabile destinato a infrangere tutti i primati di prolificità, plasmato su solide fondamenta: una scrofa prolifica deve alloggiare i feti in spazi sufficienti e dunque trarrà beneficio dall’ampio sviluppo dell’apparato riproduttore. Ma una scrofa prolifica deve essere pure una buona lattifera, ovvero ingerire enormi quantità d’alimento e metabolizzare grandi flussi di nutrienti (ossidare quelli ingeriti e sintetizzare quelli del latte). Dunque una buona lattifera dovrà beneficiare anche di ampie capacità degli apparati digerente e respiratorio. Insomma, una scrofa prolifica deve essere prima di tutto una scrofa di grande taglia. E come non bastasse, una scrofa prolifica deve poter disporre anche di grandi riserve, muscolari in particolare, per far fronte comunque all’ingestione insufficiente durante la lattazione, almeno nei primi due cicli riproduttivi. Alla breve, la scrofa prolifica deve essere di grande taglia, molto pesante e muscolosa. E così, negli stessi anni, il genetista danese modella un animale con prerogative opposte a quelle pretese dall’amministratore americano. Forse l’unico elemento d’intesa fra i due orientamenti concerne l’irrilevanza delle riserve adipose: non più scorte energetiche a cui attingere nel momento del bisogno, ma ostacolo all’espressione massima dell’ingestione in sala parto.
Proprio su questo aspetto però, l’Europa rompe e la scuola franco-olandese riafferma il primato del grasso di riserva. Ancora nel 2010, fece scalpore la denuncia di alcuni esperti francesi a proposito della “sindrome della scrofa ipermuscolosa”. Ebbene, proprio in quelle aree geografiche oggi tende a imporsi un animale più tradizionale. Non a caso, fra le tre scrofe contemporanee, proprio quella dei Paesi Bassi è la più somigliante alla vecchia progenitrice cosmopolita di fine novecento.
Orbene, questo è lo scenario corrente: tre animali diversi, tre strategie d’allevameno, tre modalità di conduzione (di cui si discuterà). Ma sia chiaro, qui nessuno ha redatto classifiche; non ci sono la buona, la brutta e la cattiva, ma soltanto la leggera, la pesante e la grassa.