(dott.ssa Valeria Vincenti)
Da gennaio 2022, quando si è registrato il primo caso di Peste Suina Africana nel cinghiale in Nord Italia, si è posta una crescente attenzione nei confronti della tematica “biosicurezza”, che rappresenta ad oggi tra principali strategie di difesa delle aziende suinicole nei confronti di questa malattia. A tal riguardo, recentemente, allevatori e veterinari sono stati coinvolti a tempo pieno nella revisione delle misure di biosicurezza da mettere in atto nelle aziende suinicole. Quest’attività ha imposto di analizzare in maniera più critica l’organizzazione strutturale e gestionale delle aziende, consentendo di scoprire diversi punti critici che prima di questo periodo erano stati sottovalutati. Tra questi, vi è sicuramente l’igiene dell’allevamento e, più nello specifico, le cosiddette “procedure di pulizia e disinfezione”. Applicare correttamente un protocollo di pulizia e disinfezione dell’allevamento potrebbe sembrare a primo impatto un compito semplice e lineare; al contrario, si tratta di una procedura che presenta numerosissime variabili, che devono essere prese in considerazione se si vuole ottenere un risultato soddisfacente.
Chi lava il capannone a fine ciclo ha sufficienti conoscenze per farlo?
L’operatore addetto alla sanificazione non sempre, anzi quasi mai, è adeguatamente formato e, inoltre, spesso non sono presenti linee guida dettagliate e specifiche sui protocolli da utilizzare in allevamento. Non si può nascondere che l’attività di pulizia e disinfezione non sia tra le preferite dagli operatori, a causa dell’impegno fisico e protratto, e che per questo venga spesso assegnata “all’ultimo arrivato”. Ne consegue una notevole discordanza tra la corretta teoria dei lavaggi e la pratica di allevamento.
I batteri resistenti agli antibiotici rimangono nel capannone vuoto
L’applicazione di corrette prassi igieniche, accompagnate da adeguati programmi vaccinali e un buon management aziendale, possono invece ridurre l’esposizione degli animali agli agenti patogeni, andando ad incidere sull’impiego dei farmaci e, più nello specifico, degli antibiotici. Come evidenziato da diversi studi, è noto che gli allevamenti suini sono colonizzati da batteri resistenti agli antibiotici, che non si ritrovano soltanto negli animali, ma anche sulle superfici e le attrezzature a contatto con essi. I più diffusi sono Staphylococcus aureus meticillino-resistenti (MRSA) ed enterobatteri produttori di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL-E) e vengono comunemente utilizzati come indicatori generici della presenza di antimicrobico-resistenza in un dato ambiente.
Gli operatori suinicoli possono portare a casa i batteri resistenti
Tali batteri si possono trasmettere dagli animali e dall’ambiente agli operatori del settore e alle persone a loro vicine, andando a rappresentare un rischio professionale e, in senso più ampio, un problema di sanità pubblica. Ne consegue che l’applicazione di adeguate procedure igieniche rappresenta di nuovo un punto focale nel contrastare la diffusione di batteri antimicrobico-resistenti, oltre che di altri agenti patogeni zoonotici e non.
Uno studio dell’Università di Torino ha valutato l’efficacia delle procedure igieniche sul campo
Alla luce di queste considerazioni è nata la curiosità di indagare più a fondo l’efficacia delle procedure igieniche messe in atto dalle aziende presenti sul territorio. Nello specifico, uno studio dell’Università di Torino, dipartimento di Scienze Veterinarie, ha valutato l’impatto dei diversi protocolli igienici adottati negli allevamenti sulle cariche batteriche ambientali, utilizzate come indicatori generici di igiene (carica mesofila totale, Enterobacteriaceae, Staphylococcus spp. e Enterococcus spp.). Al contempo, è stata indagata la presenza di batteri antimicrobico-resistenti all’interno delle popolazioni batteriche isolate e ricercato un’eventuale correlazione tra la carica batterica totale e la presenza di colonie batteriche resistenti. I fattori di resistenza agli antimicrobici considerati sono stati: vancomicina-resistenza (VRE), meticillino-resistenza (ORSAB) e presenza di carbapenemasi (OXA e CRE) e beta-lattamasi (ESBL). Per condurre lo studio sono stati selezionati, con il supporto del distretto di Racconigi Cn1, 20 allevamenti piemontesi di suini da ingrasso. Ogni azienda è stata campionata dopo lo svuotamento dei locali di stabulazione degli animali (strutture sporche) e alla fine delle procedure di pulizia e disinfezione con i locali vuoti. Le analisi di laboratorio sono state effettuate presso l’IZS con sede a Torino. All’interno di ciascun allevamento, è stato scelto un box casuale, nel quale sono stati selezionati 4 siti di prelievo: punto di abbeverata (1) e di alimentazione (2), area di defecazione (3), materiali manipolabili (4). Le superfici piane sono state campionate mediante garze sterili, mentre gli abbeveratoi a succhiotto e i tubi di alimentazione utilizzando dei tamponi (Fig.1).
Fig. 1: procedure di prelievo campioni
I batteri carbapenemi-resistenti spariscono dopo il lavaggio, gli altri no
Relativamente alla prevalenza dei batteri antimicrobico-resistenti, solo i batteri della categoria “carbapenemi-resistenti” (OXA-CRE) hanno riportato un azzeramento delle cariche post-lavaggio. Diversamente, le altre categorie non hanno riportato riduzioni altrettanto soddisfacenti post-lavaggio come illustrato in Fig. 2.
Fig.2: prevalenza batteri antimicrobico-resistenti pre e post pulizia
Le resistenze antibiotiche però ci sono anche in ambienti puliti
Relativamente al secondo quesito che ci eravamo posti, ovvero se ci fosse correlazione tra cariche batteriche indicatrici di igiene ambientale e la presenza di batteri resistenti, sono stati osservati risultati talvolta contrastanti. In alcuni casi, più rari, il riscontro di colonie resistenti corrispondeva a cariche batteriche più elevate, come si può vedere in fig. 3 in cui si osserva una correlazione significativa tra batteri produttori di carbapenemasi OXA e cariche batteriche più elevate di Staphylococcus spp. In molti altri casi è emerso, invece, che il riscontro di antimicrobico-resistenza corrispondeva a basse cariche batteriche ambientali come evidenziato in figura 4.
Fig. 3: Correlazione tra carica batterica di Staphylococcus spp. pre-pulizia e numero di colonie di batteri produttori di carbapenemasi (OXA).
Fig. 4: correlazione tra carica mesofila totale pre-pulizia e numero di colonie di batteri meticillino-resistenti (ORSAB).
Quello che si è abituati a considerare pulito, non necessariamente è sufficientemente pulito
Alla luce di quanto è emerso dai risultati dello studio verrebbe spontaneo chiedersi: quindi più sporco è meglio? Ovviamente no! Ma quello che si è abituati a considerare pulito non necessariamente è sufficientemente pulito, almeno se si tratta di batteri antimicrobico-resistenti. Una possibile spiegazione al fatto che alcune cariche batteriche non si siano abbassate in maniera significativa dopo la disinfezione potrebbe essere ricondotta al fatto che gli allevamenti campionati non abbiano utilizzato protocolli di disinfezione specifici, ma procedure di routine, non sempre svolte con cura maniacale. Sembrerebbe quindi che procedure standard non siano sempre sufficienti ad azzerare le cariche di queste categorie di batteri. Un altro fattore che potrebbe aver inciso sulla scarsa efficacia delle sanificazioni potrebbe essere un’aumentata resistenza batterica ai principi attivi presenti nei detergenti e disinfettanti, sia per l’acquisizione di fattori di resistenza specifici, sia per la loro capacità di produrre biofilm. Infine, non devono essere trascurate le complesse interazioni che possono intercorrere tra le diverse popolazioni batteriche: fenomeni di sinergismo e antagonismo possono svolgere un ruolo chiave nell’influenzarne la crescita e lo sviluppo su una determinata superficie.
Investire attenzioni sulla pulizia del proprio capannone
I risultati ottenuti nello studio evidenziano la difficoltà di trovare una risposta univoca. Sicuramente, un punto di partenza per migliorare l’efficacia della pulizia è l’individuazione di procedure specifiche e mirate che derivano da una precisa osservazione dell’ambiente di allevamento e da una maggior attenzione alla formazione del personale. L’implementazione di queste misure potrebbe essere attuata anche attraverso prove di efficacia eseguite in autocontrollo mediante l’utilizzo di marcatori di igiene ambientale. Questi sforzi sono necessari per migliorare la salute degli animali che si allevano ma anche quella delle persone che lavorano in allevamento e non solo, nell’impegno comune di contrastare il più possibile lo sviluppo di una problematica sempre più rilevante che è lo sviluppo dell’antimicrobico-resistenza.
(estratto di un articolo apparso su Suinicoltura n.4 Aprile 2024 pag. 26-29)