Poche storie, adesso useremo il pugno di ferro! Questo è stato il buongiorno di lunedì mattina 22 luglio 2013. Così l’autorità sanitaria diede notizia dell’allerta RASFF (sistema d’allerta rapido comunitario di alimenti e mangimi) riguardante alcuni lotti di una miscela enzimatica contaminati da cloramfenicolo, nientemeno. Il cloramfenicolo, un po’ come il diavolo, lo conosciamo tutti, trattandosi della sostanza non autorizzata, o meglio proibita, certamente più popolare in alimentazione animale. Una molecola che gode di una specie di statuto speciale sprovvisto di MRL, ovvero di una soglia massima tollerata come residuo. Una questione di non poco conto, visto che l’assenza della soglia tollerata significa (appunto!) niente tolleranza, o meglio ancora “residuo zero”. Ed ecco perché a fronte di un residuo zero si giustificava quel metaforico “pugno di ferro”, tanto per i carnefici, quanto per le vittime (sempre in spirito di metafora). Eppure, solo dopo poche ore si percepiva una inclinazione più conciliante proprio negli uffici alti della UE. Già la notifica apparsa sul portale RASFF alla voce “Action Taken” indicava “Informing recipients” (ovvero informare i destinatari) e non il drastico “withdrawal from the market” (ovvero ritiro dal mercato). La tendenza si trasformò poi in presa di posizione e così la Commissione DG Sanco stabilì il divieto d’uso e il ritiro dell’additivo contaminato, ma non dei mangimi prodotti con quell’additivo. E questa è la cronaca.
Una cronaca dallo sviluppo sorprendente sia per chi era deciso, sia per chi era rassegnato, al ritiro dei mangimi certamente contaminati. A maggior ragione poi se fosse stato contemplato il divieto comunitario della pratica di diluizione (diluire nel mangime il contaminante dell’additivo). Comprendere le ragioni della Commissione permetterà di affrontare future emergenze di matrice equivalente con serenità, ma non solo. Proviamo!
Il cloramfenicolo fu il primo antibiotico prodotto per sintesi industriale, ma lo si scoprì come metabolita dell’actinomicete Streptomyces venezuelae nel 1947. A un anno dalla scoperta si dimostrò efficace contro la febbre tifoide e ben presto l’impiego fu esteso in medicina veterinaria, ittiocoltura in particolare. E qui siamo in area beneficio. Nella comunità medica però il cloramfenicolo cadde in disgrazia per un nefasto effetto collaterale: l'anemia aplastica idiosincrasica irreversibile, una forma di anemia in cui il midollo osseo cessa di produrre numeri sufficienti di globuli rossi e bianchi. La dose minima associata allo sviluppo di questa forma è ignota, ma l’incidenza viene stimata in 1,5 casi per milione di abitanti e per anno. Tuttavia soltanto il 15% di quella forma anemica è imputabile a trattamenti farmacologici e fra questi il cloramfenicolo non è il maggior imputato. Tutto considerato, le responsabilità del nostro antibiotico sono stimate in meno di un caso su 10 milioni per anno. Oltre a questo effetto collaterale fatale però, il cloramfenicolo è ritenuto genotossico e carcinogeno. E in proposito non c’è una dose giornaliera tollerabile. Dunque il cloramfenicolo non ha MRL e come tale (almeno nella UE) la tolleranza è zero. Insomma, l’assenza della molecola significa assenza del rischio e per reciprocità il cloramfenicolo diventa rischioso a qualsiasi dosaggio. Qui siamo in piena area pericolo. Oggi però sappiamo che in Asia e Oceania diverse specie di anfibi sono a rischio estinzione per causa di un fungo; un fungo sensibile al cloramfenicolo. E così per chi le rane le mangia, ma anche per chi intende difendere la biodiversità, il cloramfenicolo oscilla di nuovo nell’area del beneficio. Certo, per l’irriducibile resterà il diavolo, ma per altri diventerà un pendolo le cui oscillazioni coinvolgeranno ora l’area del pericolo, ora quella del beneficio.
Ma torniamo alla tolleranza zero; una rappresentazione mentale destinata prima o poi a scontrarsi con la realtà per il progressivo affinamento delle metodiche analitiche. All’inizio degli anni 2000 infatti, le dispute della UE con i produttori di gamberetti dell’Estremo Oriente assunsero i connotati di guerra commerciale insostenibile proprio per residui di cloramfenicolo. Contromisure: nel 2005 limitatamente ai prodotti d’importazione (Decisione 2005/34/EC) e quindi definitivamente nel 2009 (Regolamento 2009/470/EC) fu introdotto il principio del MRPL (Minimum Required Performance Limit), ovvero il limite massimo di residui. E in proposito il citato regolamento chiarisce: i valori di riferimento per interventi sono basati sul contenuto minimo di un analita che può essere rilevato e confermato da un laboratorio ufficiale di controllo. Ebbene, per il cloramfenicolo questo limite è stato stabilito a 0,3 ppb (µg/kg) e così oggi i gamberetti orientali transitano nella UE a questo limite.
Negli stessi anni poi si scoprì la presenza naturale di cloramfenicolo in un vino bianco (2003) e in erbe pascolative (2010) fino a massimi di 450 µg/kg. Da pochi mesi poi (2013) sappiamo che il cloramfenicolo prodotto dai batteri nel suolo, può essere trasferito ai vegetali attraverso l’apparato radicale e quindi da questi all’animale. Fosse anche il diavolo, con quello dobbiamo convivere.
Quel lunedì mattina del 22 luglio però tutto pareva più semplice. Il male e il bene erano ancora nozioni ben distinte e contro il male si doveva lottare con il pugno di ferro. Poi sopraggiunsero i dubbi. E così si scoprì una seconda volta la presenza in natura del cloramfenicolo. Poi si comprese che la UE aveva già archiviato il ferrovecchio, pardon, il residuo zero, con il MRPL. E quindi quei mangimi prodotti con l’additivo contaminato da cloramfenicolo, ma abbondantemente sotto il MRPL (ovvero 0,3 µg/kg), non erano appestati dal maligno, ma risultavano conformi. Venerdì 26 luglio il mondo era diverso. E il cloramfenicolo assunse le sembianze del pendolo. Un pendolo le cui escursioni nelle aree del pericolo e del beneficio dovrebbero essere governate dall’intelligenza dell’uomo. L’intelligenza, appunto!