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Suinicoltura + Suinicultura

Passando al successivo piano, quello del 1997 (D.M. 01 aprile 1997), ho ripreso in mano, con un po’ di malinconia, gli appunti di una edizione del “Corso in patologia suina e tecnica dell’allevamento” di Brescia. In particolare allora mi colpì un intervento del Prof. M. Pensaert (Laboratorio di virologia facoltà di Medicina Veterinaria Università di Gent). Dopo averci spiegato lo stato dell'arte su "Strategie e programmi di profilassi per l'eradicazione della malattia di Aujeszky nell'unione europea", alla discussione rimase letteralmente allibito di fronte al fatto che noi veterinari, ma non solo, anche allevatori, ci si perdeva sulla sterile, come ci spiegò benissimo poi successivamente, diatriba: vaccino vivo si, vaccino vivo no.
Allora il mondo veterinario, infatti, si divideva in due opposte fazioni (è proprio vero che la storia non insegna mai abbastanza) a favore o contro l’impiego del vaccino vivo. Al riguardo, il suo intervento fu molto chiaro: “il punto non è il tipo di vaccino che dovete usare in Italia, ma la strategia migliore che volete applicare”.
Ripensandoci aveva ragione, il punto cruciale era ed è proprio questo: individuare una strategia chiara, possibilmente consolidata e supportata, sostenibile, applicabile e sicura.
Sulla ricombinazione genetica del virus poi, alla base delle motivazioni dei più accesi detrattori dell’impiego del vaccino vivo, lui affermò che mentre era stata dimostrata in laboratorio, in vivo non si era mai verificata ed era "un evento improbabile in condizioni naturali".
Tra le motivazioni dei detrattori dell’impiego del vaccino vivo, la più importante era che gli allevamenti si potevano considerare un laboratorio immenso a cielo aperto senza i controlli e le condizioni ottimali di un laboratorio sperimentale. L'assenza delle evidenze di campo non significava, quindi, in assoluto la mancanza della possibilità di manifestare le evenienze. Altra considerazione era che mentre la fase di ingrasso si estingue con la macellazione, nei riproduttori il rischio si dilaterebbe nel tempo e poi potrebbe non essere trascurabile l'immunosoppressione da stress nei riproduttori di allevamenti industriali sottoposti a vaccinazione e a contatto col virus selvaggio creando potenziali condizioni di ricombinazione.
In relazione alla ricombinazione, Pensaert aggiunse ancora:"la ricombinazione genetica del ceppo vaccinale può accadere solo se il virus vaccinale e il virus selvaggio replicano nella stessa cellula nello stesso momento, condizione praticamente impossibile a verificarsi dal momento che i vaccini attenuati devono essere somministrati per via intramuscolare. I virus vaccinali non diffondono ai tessuti ma replicano nel punto di inoculazione e nei linfonodi regionali. Se un virus selvaggio e virulento entra nelle cellule dell'orofaringe (via d’ingresso più probabile nel contatto diretto) di un animale recentemente vaccinato, ha poche probabilità di raggiunger le cellule che contengono il ceppo vaccinale. Se si vaccina un animale con infezione latente (ad esempio infezione latente dei gangli del trigemino) l'eventualità di una ricombinazione genetica è praticamente inesistente poiché il virus vaccinale non può raggiungere i gangli dove il virus è latente. Inoltre è stato recentemente dimostrato che i ceppi gE- TK- hanno poche possibilità di mantenersi nella popolazione suina. dopo l'esperienza di anni di vaccinazioni sistematiche delle scrofe e dei suini all'ingrasso, non esistono prove certe di ricombinazioni genetiche del ceppo vaccinale in condizioni di campo.
Sulla base di quanto dettoci da Pensaert, l'Italia col piano del 1997 commise una serie di errori grossolani che ne minarono l'efficacia ai fini di una eradicazione della malattia. Nel prossimo lavoro dal titolo “Aujeszky atto terzo: piano del 1997”, saranno analizzati tali aspetti.