Dopo le feste natalizie è vivamente sconsigliato, pena grandi spaventi, fare un check up analitico del sangue; siamo infatti nel periodo dell’anno più indicato per parlare di abbuffate, per cui ne approfitto per prendere in considerazione alcuni lavori sulla glicemia delle scrofe dove, in un mondo purtroppo tendente nei paesi ricchi alla obesità (ed alla morte per fame in quelli poveri…), anche il suino deve fare i conti con il glucosio…
Partiamo dal concetto che il metabolismo dei glucidi nel suino, ed in particolare nei riproduttori, non è sempre uguale a sé stesso. Durante la gravidanza i feti sono totalmente dipendenti dal trasferimento di nutrienti dalla madre attraverso la placenta; la loro crescita aumenta esponenzialmente durante la gravidanza di pari passo con il loro fabbisogno, soprattutto nell’ultimo terzo del periodo gravidico. In questa situazione nella scrofa compaiono degli adattamenti metabolici e fisiologici; ad esempio aumenta il flusso ematico verso l’utero ed aumenta anche la concentrazione nel sangue di alcuni nutrienti come il glicerolo, la alanina , gli acidi grassi ed il glucosio; il glucosio in particolare è il substrato energetico di elezione per il prodotto del concepimento, e proprio nell’ultima fase di gravidanza la scrofa (come accade nel coniglio, nella pecora e nell’uomo) sviluppa una progressiva resistenza all’insulina. In pratica al progredire della gravidanza la quota di insulina, prodotta dalle cellule beta del pancreas, pur aumentando in quantità non è in grado di fare captare completamente il glucosio ematico disponibile da parte dei tessuti deputati fisiologicamente al suo accumulo (fegato, muscolo, tessuto adiposo), per cui si realizza la cosiddetta “insulino resistenza “, rendendo disponibili nel torrente ematico maggiori quantità di glucosio per l’utero e quindi per la crescita fetale a partire dalla dodicesima settimana di gravidanza. La compensazione energetica al calo di zucchero per i tessuti materni viene parzialmente compensata dalla maggiore presenza di acidi grassi nel sangue (FFA che fungono da fonte energetica alternativa). In pratica si tratta di uno stato parafisiologico che si sviluppa più o meno sempre nella scrofa in tarda gravidanza ed all’inizio di lattazione, scomparendo post svezzamento. La complicazione sta nel gestire quanto glucosio va al feto per la crescita e quanto ai tessuti materni, in particolare alla mammella: il rischio infatti è il seguente: semplificando, poco glucosio ematico disponibile (e quindi poca “tolleranza al glucosio”), minore accrescimento del feto con figliate dispari o sottopeso; molto glucosio ematico disponibile, figliate in peso ma rischio di sindrome disgalassia della scrofa, con difficoltà alla partenza della lattazione ed elevata mortalità nei primi giorni dalla nascita (e sinceramente, di queste situazioni ne vedo abbastanza spesso...), fino ad un aumento della mortalità delle scrofe stesse nel periparto. Il collega Mazzoni, sicuramente a voi noto, in questi casi di disgalassia propone una iniezione di cortisonico a dose ridotta con la funzione, tra le altre, anche iperglicemizzante per far ripartire la lattazione. A questo proposito la ricerca scientifica purtroppo produce risultati discordanti; certo è il fatto che queste sindromi spesso sono correlate alla genetica e/o allo stato di ingrassamento delle scrofe: scrofe grasse e scrofette sono molto più suscettibili a sviluppare insulino resistenza, ed in umana per esempio questa iperglicemia gravidica predispone a nascituri sovrappeso. Sembra che nelle scrofette questa situazione sia causata anche da un eccesso di mobilizzazione delle riserve energetiche in lattazione, con una diretta conseguenza sul ciclo ormonale successivo (sindrome della scrofa secondipara). Per rendere ancor più complicata la situazione, esistono nel sangue alcuni i “trasportatori” di glucosio verso utero e mammella che sono indipendenti dalla insulina . A questo punto però, soprattutto dal punto di vista pratico, dovrebbe scaturire qualche proposta di aggiustamento nutrizionale. Non so quanto i nostri allevatori siano disponibili a fare più di un razionamento in gestazione, ma dove possibile nell’ultimo terzo di gravidanza bisognerebbe predisporre diete chetogenetiche, cioè ricche in fibra e grassi, rispetto a diete ricche di amido e zuccheri. Pensate che, per assurdo, mi è capitato recentemente di trovare in diversi allevamenti diete più ricche di amido e zuccheri in gestazione che in lattazione, ed in questi casi la partenza dell’allattamento era gravemente compromessa: questo per dire che nella pratica quotidiana il passaggio dallo stato gravidico al parto ed alla lattazione implica una serie di modificazioni fisiologiche difficilissime da gestire... e pensare che quando ho cominciato a lavorare, esistevano i mangimi “scrofe unica”!