(Dott. Claudio Mazzoni)
Cari lettori, studenti, amici e colleghi ci siamo! Con lo scoppio del recente primo focolaio di Peste Suina Africana (PSA) sui suini da allevamento, possiamo senza ombra di dubbio, dire che si è aperta una nuova pagina della suinicoltura italiana. Anzi direi proprio una nuova era, dalla quale non è affatto facile prevedere quando saremo in grado di uscirne!
A causa delle caratteristiche epidemiologiche del virus (presenza nei cinghiali), non è così difficile prevedere che rimarrà sul territorio ancora per tantissimo tempo, rappresentando una continua minaccia per gli allevamenti intensivi.
L’unico strumento di lotta per affrontare questa situazione è, neanche a dirlo, la biosicurezza. La questione biosicurezza è talmente importante che sono uscite tutta una serie di normative e circolari volte a disciplinare in modo puntuale e categorico come bisogna comportarsi e come modificare le proprie strutture al fine di raggiungere gli standard minimi. Ed ecco che improvvisamente si è scatenato l’estro creativo di centinaia di allevatori che, costretti dalla norma, hanno realizzato straordinarie infrastrutture per implementare la propria biosicurezza in pochissimi giorni. A questo proposito però, non posso fare a meno di constatare in quanto poco tempo siano state realizzate queste misure che, peraltro, sono le stesse utili per prevenire l’introduzione di decine di altre gravi patologie, ma che in precedenza non erano mai state così seriamente prese in considerazione. Forse perché per l’ennesima volta nel nostro paese è necessario obbligare la gente a fare la cosa giusta perché altrimenti c’è la propensione a non farla? Provo a spiegarmi meglio! Nei molti paesi nordeuropei ove la suinicoltura si erge al ruolo di impresa, nel senso più nobile del termine, non è necessario che lo stato imponga misure di biosicurezza agli allevatori, ma queste misure vengono realizzate già in sede di costruzione, piuttosto che essere implementate con puntualità quando necessario, perché sono ritenute importanti dall’imprenditore suinicolo stesso! Quindi perché noi abbiamo la necessità di essere obbligati? Non è per caso che si tratta di una semplice questione di mentalità? L’imprenditore nordeuropeo CREDE nella biosicurezza, quindi non ha la necessità di essere obbligato ad applicarla. Certamente non sarà dappertutto così anche all’estero, ma le evidenze con cui molti di noi si sono confrontati visitando gli altri paesi, lo confermano. E allora da noi cosa è successo? Beh! La risposta la conosciamo tutti. Pochi sono gli imprenditori che credono nei principi fondamentali della biosicurezza, ma per la verità sono ancora di meno quelli che li conoscono. Mi riferisco alle proprietà, agli imprenditori stessi che ignorano parecchi argomenti della biosicurezza, salvo poi pretenderne l’applicazione dalle proprie maestranze o da chi viene a lavorare saltuariamente da fuori in azienda. Purtroppo, questi imprenditori, e ahimè sono la più parte, dimenticano di essere loro per primi l’esempio per tutti… come possono pretendere, ad esempio, che le maestranze si cambino le calzature da un settore all’altro se magari sono loro i primi a non cambiarsele da addirittura un allevamento ad un altro? L’argomento è molto delicato, ma è alla base del successo della biosicurezza nel nostro paese. Che questo sia una criticità lo dimostra la necessità da parte di molti imprenditori, di raggiungere i requisiti minimi della biosicurezza, non tanto per prevenire l’ingresso della PSA, o delle altre patologie critiche, ma più semplicemente per non incorrere in sanzioni amministrative eventualmente commissionategli dalle autorità sanitarie. Questa è un’enorme distanza fra noi ed il resto del nord Europa!
La mia personale speranza è che, volendo cercare qualcosa di positivo in quanto ci sta accadendo, si radichi anche nella nostra mentalità il seme della biosicurezza, ma di quella buona ovvero costruttiva, che non ecceda poi dall’altra parte facendo diventare le aziende dei fortini inespugnabili. Mi riferisco ad una biosicurezza consapevole, dove tutti potranno lavorare in un contesto di conoscenza delle vere criticità e nel rispetto dei percorsi atti a salvaguardare la vera cosa più importante: la salute degli animali.