Uso degli antimicrobici negli allevamenti suini italiani in rapporto con le pratiche di allevamento

(dott. Giulia Bini)

Siringhe e suinetti: Coutesy of dott. Alessia Trafficante
Utilizzo di antibiotici e rischi ad esso collegati

Quantificare l’utilizzo di antimicrobici (AMU – antimicrobical use) in zootecnia è una pratica utile per identificare i potenziali rischi ad esso legati e anche per promuoverne un utilizzo maggiormente responsabile.

L’antibiotico-resistenza è un tema di grande attualità e un problema globale che affligge sia la salute umana che animale. L’effetto di questo fenomeno si esplica, fra le altre cose, in una perdita di efficacia di queste molecole che mina il risultato dei trattamenti antibiotici.

Diversi fattori, fra cui l’abuso di antibiotici e un loro errato utilizzo, hanno contribuito alla selezione di ceppi batterici resistenti a determinate categorie antimicrobiche. È noto che batteri esposti a concentrazioni sub-terapeutiche di antibiotico sono più soggetti allo sviluppo di resistenze come risposta adattativa a questa stessa esposizione. Questo tocca da vicino il mondo della suinicoltura e, più in generale, dell’allevamento, in quanto è probabile che gli animali da reddito alimentati con un mangime medicato ricevano trattamenti antibiotici a dosi sub-ottimali, poiché i farmaci vengono somministrati come mg di principio attivo per kg di mangime. Quindi animali con scarso appetito – verosimilmente quelli malati e quindi più bisognosi di un trattamento antibiotico – probabilmente ingeriranno una quota minore di mangime e di conseguenza anche dosi inferiori di antimicrobico.

Già a partire dal 2005, al fine di promuovere un uso maggiormente responsabile degli antimicrobici, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) produce regolarmente una lista aggiornata delle molecole antibiotiche utilizzate in medicina umana (la maggior parte delle quali usate anche in veterinaria). Queste molecole vengono raggruppate in tre categorie basate sull’importanza che esse hanno in medicina umana. Sono pertanto stati individuati:

  • antibiotici di importanza critica: i ben noti CIAs (critically important antimicrobials), divisi a loro volta in:
    -antibiotici ad elevata priorità
    -antibiotici ad alta priorità
  • antibiotici altamente importanti
  • antibiotici importanti

Questa distinzione è stata realizzata in base alla disponibilità di terapie alternative e alla frequenza di utilizzo dei principi attivi nell’uomo. In particolare, alla categoria CIA appartengono: cefalosporine di 3°-4°-5° generazione, chinoloni, polimixine e glicopeptidi. Queste molecole non devono essere utilizzate in medicina veterinaria come farmaci di prima scelta ma solamente a seguito di esami colturali e test di sensibilità agli antimicrobici, dimostrando pertanto di non avere alternative per la cura di una determinata patologia ad eziologia batterica. Alla lista si aggiungono anche i macrolidi, al momento non espressamente inclusi negli interventi di riduzione programmati per il comparto zootecnico.

Più recentemente, l’Autorità Europea per il Farmaco (EMA - European Medicines Authority) ha stipulato un’ulteriore classificazione raggruppando gli antimicrobici in quattro classi sulla base dei rischi per la salute umana, correlati all’insorgenza di resistenze e la necessità di avere armi a disposizione per la medicina veterinaria. Le quattro categorie sono:

  • A – avoid (uso non consentito): antibiotici non autorizzati per gli animali da reddito ma solamente in casi eccezionali negli animali da compagnia;
  • B – restrict (uso limitato): sono le cefalosporine, chinoloni e polimixine; sono molecole molto importanti per la salute umana e il loro uso in veterinaria dovrebbe essere limitato al fine di attenuare il rischio per la salute pubblica. L’uso dovrebbe essere basato sui risultati dei test di sensibilità antimicrobica;
  • C – caution (usare con attenzione): antibiotici per i quali esistono alternative in medicina umana. Da usare quando le molecole di categoria D risultano inefficaci;
  • D – prudence (usare con prudenza): antibiotici da usare come trattamenti di prima linea, quando possibile. Da usare comunque con cautela, evitandone un uso non necessario e per periodi non troppi prolungati.

Allo stato attuale, i dati sull’uso di antimicrobici pubblicati nel settore della produzione suinicola sono scarsi ma è quantomai necessario ampliarli dal momento che nel 2017 la produzione di suini in Europa è aumentata dell’1,6% con un totale di 150,2 milioni di animali, di cui 8,6 milioni allevati in Italia. Nel nostro paese l’allevamento di suini è maggiormente votato alla produzione di prosciutti crudi DOP, con animali che raggiungono almeno 160 Kg di peso vivo a nove mesi di età.

Secondo il report 2017 del JIACRA (Joint Inter-agency Antimicrobial Consumption and Resistance Analysis) sull’uso di antibiotici negli animali destinati al consumo di alimenti in Europa, l’Italia si è purtroppo posizionata al terzo posto, dopo Cipro e la Spagna.

 

Lo studio italiano

Recentemente è stata condotta un’indagine italiana sui consumi di antibiotico nel triennio 2015-2017 in un campione rappresentativo di allevamenti suinicoli del nord Italia. Responsabili del progetto sono stati l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, l’Università di Torino, la società di ricerca privata Swivet Research e l’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro (INAIL).

Lo scopo di questo studio è stato proprio quello di fornire dati aggiornati sull’utilizzo di antimicrobici negli allevamenti intensivi italiani e di identificare, se presenti, relazioni significative fra l’uso di antibiotici e le pratiche di allevamento (elevati standard di benessere, numero di capi, numero di operai, qualità dell’aria, presenza di animali con la coda, mortalità media, presenza di aree esterne).

Precedenti studi hanno dimostrato che alcuni interventi specifici sulla mandria, riguardanti la gestione della salute e della biosicurezza, erano associati alla riduzione dell’uso dell’antibiotico (AMU – Antimicrobial Use) in alcuni paesi europei. Al contrario, l’allevamento di suini con la coda può portare al maggior utilizzo di antibiotici a causa delle conseguenze dovute alla sua morsicatura. La morsicatura della coda è infatti un problema importante e molto attuale nella produzione suina a causa del rischio di infezioni secondarie, ridotte performance, aumento della mortalità e deprezzamento della carcassa fino alla sua distruzione al macello.

Per questo studio sono stati selezionati casualmente dalla Banca Dati Nazionale 36 allevamenti da ingrasso, localizzati fra Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto (regioni dove si concentra il 37% della popolazione suina italiana con circa 7400 allevamenti totali), che avessero almeno 900 capi. Le dimensioni degli allevamenti scelti variavano da 900 a 10.000 capi.

Per ogni allevamento sono state raccolte le seguenti informazioni: numero di suini macellati all’anno, trattamenti antimicrobici somministrati, numero di operai presenti, tasso medio di mortalità (calcolato annualmente e basato sugli animali introdotti e macellati), presenza di aree esterne per la defecazione, tipo di allevamento (allevamento convenzionale o che lavora per filiere welfare), presenza di animali con la coda (tutti o solo alcuni gruppi). Sono anche state effettuate misurazioni per verificare i livelli di ammoniaca nell’aria.

Per quantificare in modo corretto l’utilizzo complessivo di antibiotici annuo è stato utilizzato il metodo proposto dall’Agenzia Europea per il Farmaco (EMA): DDDvet/PCU, ovvero la dose giornaliera definita/unità di correzione della popolazione. L’unità di correzione della popolazione è ottenuta moltiplicando il numero totale di suini macellati annualmente per un peso standard di 65Kg. In questo studio però, per fornire un valore più preciso e reale, il peso standard è stato considerato a 100Kg (per adattarsi alla situazione di allevamento italiana dove si allevano suini fino a 160 Kg e più).

Complessivamente, l’uso di antimicrobici è risultato molto variabile fra gli allevamenti. L’ammontare totale dell’AMU nei 36 allevamenti, calcolato come DDDvet/PCU, è stato 24.46, 18.76 e 15.91 nel 2015, 2016 e 2017, rispettivamente. Lo stesso dato, espresso come DDDita, ammonta rispettivamente a 12.05, 7.16 e 8.27. Non è stato evidenziato un trend generale decrescente significativo dal punto di vista statistico, anche se per 19 allevamenti, ovvero più della metà, il consumo di antibiotici è diminuito del 66% dal 2015 al 2017. Gli antimicrobici più utilizzati sono stati: tetracicline, lincosamidi e penicilline. Lo stesso dato è confermato anche dal report ESVAC (Sorveglianza Europea sul Consumo di Antimicrobici in Veterinaria) sulla vendita di agenti antibiotici veterinari nel 2017 nell’Unione Europea che ha concluso che penicilline e tetracicline fossero le molecole più usate. Queste sostanze sono spesso utilizzate per trattare patologie respiratorie ad eziologia batteriche che colpiscono il suino. I lincosamidi, invece, vengono spesso usati in Italia per il trattamento di infezione causate da: Brachyspira hyodysenteriae (agente della diarrea rossa), Mycoplasma hyopneumoniae e Lawsonia intracellularis (responsabile dell’enteropatia proliferativa del suino).

Non è stata riscontrata una relazione significativa fra il consumo di antibiotico e: dimensioni dell’azienda, numero di operai impiegati, qualità dell’aria, mortalità media e presenza di animali con la coda. Invece, per allevamenti parte di filiere welfare-friendly, è stato evidenziato un significativo 38% in meno di antibiotico utilizzato.

Nei suini all’ingrasso gli antibiotici sono spesso somministrati tramite trattamenti di massa attraverso acqua di abbeverata o mangime, mentre i trattamenti individuali sono meno frequenti. È di fondamentale importanza, al fine di ridurre l’AMU, lavorare sulla formazione dei veterinari così come sulla consapevolezza degli allevatori che talvolta non considerano i trattamenti antimicrobici effettuati in allevamento un fattore di rischio per l’antibiotico resistenza.

Sicuramente migliorare la gestione aziendale e le misure di biosicurezza ha un impatto positivo sull’uso di antibiotico e non rappresenta un dispendio economico eccessivo per l’allevatore. Il semplice gesto di effettuare una doccia prima di entrare in allevamento, così come utilizzare indumenti e calzature esclusivamente dedicati, rappresenta un grande aiuto per evitare di introdurre patogeni esterni nell’azienda. Allo stesso modo risulta importante la disinfezione degli automezzi in entrata (es. camion per il mangime, ecc…), anche se l’ideale sarebbe ideare degli escamotage per impedirne l’ingresso in allevamento (es. posizionare i silos vicino al limite esterno in modo che l’approvvigionamento possa avvenire da fuori).

AMU e dimensioni dell’allevamento

La dimensione dell’allevamento non ha mostrato, in questo studio, effetti significativi sull’AMU. Tuttavia, in letteratura sono riportati risultati contrastanti. Alcuni lavori hanno riscontrato che allevamenti con 200-1000 animali macellati per anno tendevano ad usare molto più antibiotico rispetto ad allevamenti più grandi, probabilmente a causa di condizioni igieniche più scarse se comparate a quelle di realtà più grandi ed organizzate. Al contrario, altri autori hanno mostrato che aziende più grandi (numero di animali non fornito) erano associate a un maggior consumo di antibiotico, spiegato dalla maggior possibilità di diffusione delle malattie. Altri studi non hanno invece mostrato differenze significative fra allevamenti di grandi e piccole dimensioni.

AMU e allevamenti welfare-friendly

È un dato di fatto, invece, che allevamenti con standard di benessere più elevati abbiano un consumo minore di antibiotico. Questo tipo di produzione gode infatti di un supporto veterinario più corposo, di corsi di formazione per allevatori e personale (corsi che vertono su buone pratiche di allevamento, biosicurezza, benessere, uso responsabile del farmaco). Vi è inoltre una maggiore attenzione alla pulizia e alla biosicurezza, soprattutto fra un ciclo di ingrasso e il successivo (es. sanitizzazione delle tubature e derattizzazione). Inoltre, la castrazione è permessa solo con l’uso di analgesici/ anestetici e vengono attuate pratiche specifiche per ridurre al minimo le mutilazioni come il taglio della coda.

Suini con la coda e antibiotici

Terreno di discussione e controversie resta, senz’altro, la questione “code”. In Italia il taglio della coda è una pratica parzialmente permessa dalla direttiva 2008/120 CE, se effettuata entro i 7 giorni di vita dell’animale. Tuttavia, si sta cercando di arrivare ad una condizione dove tale mutilazione venga attuata solamente nei casi in cui non sia possibile evitare con nessun altro mezzo il cannibalismo che spesso si riscontra fra gli animali. Sempre più aziende stanno pertanto sperimentando l’allevamento (in gruppi o tutto l’allevamento) di suini con la coda, implementando la presenza di arricchimenti ambientali e materiali manipolabili (paglia inserita in rastrelliere, catene, ceppi di legno, corde, ecc…). È lecito pensare che l’allevamento di animali con la coda aumenti il cannibalismo e di conseguenza la presenza di lesioni, sia in termini di gravità che frequenza. Un maggior numero di lesioni fa pensare ad un aumento degli scarti, della mortalità e quindi ad una maggiore quantità di antibiotico utilizzata, così come ad un numero più elevato di ascessi al macello che deprezzano la carcassa e possono portarne anche alla distruzione. Tuttavia, questo studio, così come altri, non ha dimostrato una relazione fra la presenza di animali con la coda e un aumento dell’utilizzo di antibiotici, come invece si è portati a credere.

AMU e qualità dell’aria

Anche la qualità dell’aria può essere un fattore impattante sull’utilizzo di antibiotici. Infatti, alte concentrazioni di ammoniaca possono affliggere gravemente le vie aeree superiori dei suini rendendoli più suscettibili alle infezioni. La cattiva qualità dell’aria può essere quindi una concausa di patologie respiratorie e di conseguenza portare ad un maggiore utilizzo di antimicrobici. Tuttavia, questo studio, così come altri, ha mostrato come la presenza di ammoniaca e altre molecole rivesta un ruolo marginale nell’insorgenza di patologie e di lesioni.

 

Sebbene l’esito di questo lavoro non mostri un trend significativamente negativo circa il consumo di antibiotici negli allevamenti esaminati, sono comunque incoraggianti i dati di alcune aziende che, prese singolarmente, hanno mostrato un calo dell’uso di antimicrobici. Sarebbe altresì interessante continuare con questa tipologia di ricerche, anche nell’ottica di comprendere a pieno quali siano i fattori che maggiormente incidono sull’utilizzo di antibiotici al fine di ridurne il consumo. Infine, sarebbe utile capire se davvero la presenza di animali con la coda non causi una maggiore necessità di trattamenti antimicrobici.  

Tratto da: Antimicrobial use on Italian Pig Farms and its Relationship with Husbandry Practices. Tarakdjian, J., Capello, K., Pasqualin, D., Santini, A., Cunial, G., Scollo, A.,  Martino, G. D. (2020). Animals, 10(3), 417.

 

 

DDD e DDDita: cosa sono?

La dose giornaliera definita (DDD – defined daily dose) è l’unità di misura standard della prescrizione farmaceutica definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “la dose di mantenimento media giornaliera di un farmaco”. Diversi farmaci possono avere lo stesso effetto ma diversa potenza, ovvero produrre, allo stesso dosaggio, effetti più o meno marcati. Il calcolo delle DDD permette di uniformare i dati sull’uso di antibiotici in quanto il sistema basato sui mg/Kg peso ha un limite che dipende molto dalla dose del principio attivo (es. antibiotici con dosaggi a 40 mg/Kg avranno un peso maggiore rispetto a molecole con dosaggio di 1 mg/Kg e di conseguenza se si usano molti farmaci contenenti la prima molecola risulterà un consumo di antibiotici più elevato). La DDD, invece, considera le dosi somministrate e non i mg usati. Questo è un metodo mutuato dalla medicina umana che presenta, in veterinaria, una criticità legata al fatto che fra gli animali vi è un ampio range di peso anche all’interno di una stessa specie (es. suini allo svezzamento e suini all’ingrasso). È da intendersi come un “indice di rischio” perché indica per quanti giorni in un dato allevamento, in un dato periodo, vi sia il rischio che ogni animale presente sia sottoposto a trattamento antibiotico. Ai fini di una comparazione deve riferirsi a un periodo specifico, in genere di un anno (DDD/y).

La DDDvet (o DDDa – Defined Daily Dose Animal) è la trasposizione in veterinaria e indica la dose media giornaliera (mg/Kg/die) per le principali indicazioni d’uso di un medicinale. Il valore della DDDa viene stabilito considerando la posologia indicata dal produttore del medicinale. Si basa sulla dose media tenendo conto di eventuali diversi dosaggi.

La DDDa si ricava in questo modo:

 Quantità totale di medicinale utilizzato (mg principio attivo) /coeff.DDD
____________________________________________________________________
N° capi prodotti*Peso medio

Nello studio qui riportato sono state utilizzate le DDDita al fine di fornire dati più precisi e meglio adattati alla situazione italiana. Sono stati presi i singoli dosaggi giornalieri di ogni prodotto antibiotico commercializzato, come riportati nel foglietto illustrativo; quando il dosaggio era in forma di range è stato considerato il valore più alto. Il numero di DDDita è stato poi diviso per il numero di animali macellati prodotto ogni allevamento coinvolto nello studio, moltiplicato per il peso atteso al trattamento (peso che è stato considerato di 100 Kg per adattarsi alla situazione del nostro paese).

 

 

 

(Articolo pubblicato su Summa Animali da reddito, numero di Gennaio-Febbraio 2021, che ringraziamo per il permesso di pubblicazione)