(Dott. Claudio Mazzoni)
“Dottore! Venga a vedere, le sembrerà strano ma tutto è partito da questo box!”. Sono state queste le parole di una mia carissima allevatrice di scrofe mentre, a distanza di alcuni giorni dall’insorgenza di un brutale focolaio di PRRS con oltre il 10% di aborti, mi mostrava un box gestazione dove erano insorti i primi eventi. Come spesso accade, ad una prima ispezione clinica del sito incriminato, non è quasi mai possibile raccogliere elementi tali da far orientare la diagnosi, od almeno un sospetto di tale, ed anche questa circostanza non faceva eccezione. Tutto sembrava nella norma e le scrofe che avevano abortito (4 su 9) sembravano già orientate verso una ripresa inaspettata. Approfondendo però la valutazione del box, mi cadde l’occhio sulla bandinella che dal box dava accesso al corridoio di defecazione esterno, di un vivido colore verde brillante peraltro ancora poco imbrattato di deiezioni. Confrontandolo con le caratteristiche delle altre bandinelle, risultava molto evidente la differenza e dopo un paio di domande, fu subito chiaro che era stata cambiata di recente in presenza delle scrofe e circa 7-10 giorni prima dell’insorgenza del focolaio. Ma cosa era potuto succedere? È mai possibile che un semplice cambio di una bandinella avesse potuto scatenare un disastro di quelle proporzioni? Certo che no! Intervistando il manovale preposto alla manutenzione (peraltro degnissima persona), saltò fuori che le calzature utilizzate nell’esercizio della mansione, erano le stesse utilizzate per le manutenzioni dei siti due e tre, senza che nessun intervento preventivo venisse implementato per prevenire, o quantomeno contenere, un’eventuale contaminazione dai siti due e tre di ritorno verso la scrofaia. Questa indagine permise di ipotizzare, con un certo livello di probabilità (ma senza nessuna evidenza scientifica) la probabile provenienza del virus infettante.
Sono piuttosto sicuro che anche voi abbiate vissuto più di una esperienza come quella citata nel precedente aneddoto, ma con altrettanta frequenza avrete percepito nel vostro intimo un certo grado di impotenza e, cosa ancora peggiore, un certo livello di rassegnazione legato all’inevitabilità degli eventi.
Si! Mi riferisco a quella rassegnazione che passa dalla nostra convinzione, probabilmente ingiustificata ma certamente reale, che le nostre maestranze, soprattutto quelle con difficoltà di comprensione dell’idioma oppure quelle più attempate o di estrazioni culturali troppo distanti, siano incapaci di recepire ed applicare un qualsiasi concetto di biosicurezza che sia uno.
E le proprietà?! Non è forse che si debba fare un primo fondamentale sforzo a questo livello? Credo infatti che affinché possa divampare la speranza che la biosicurezza venga applicata, è proprio dai livelli più alti che si deve partire per cambiare. Sono infatti certo che, con un’adeguata fase formativa, le maestranze si dedicherebbero con più abnegazione all’applicazione delle misure di biosicurezza se le proprietà per prime le acquisissero come proprie e si impegnassero, almeno un minimo, ad applicarle loro per primi.
Vale infatti la pena sottolineare il fondamentale ruolo che la biosicurezza ha assunto nell’azienda del nostro aneddoto, dove è diventata un vero e proprio must, ma tutto grazie all’impegno della proprietà in primis. È stato fantastico constatare infatti come, la manovalanza, con un sorprendente effetto a cascata, abbia seguito con applicazione la proprietà senza dover peraltro avere la necessità di introdurre strumenti di coercizione per la sua applicazione.
La biosicurezza è come sempre, ed oggi ancora di più con il recente focolaio di Peste Suina Africana anche nei cinghiali del nostro paese, uno strumento assimilabile ad una polizza assicurativa: quando ce l’hai, ti sembra di buttare via dei soldi poiché non ne percepisci il valore, ma qualora dovesse servirti, potresti rimpiangere amaramente il fatto di non averla stipulata per tempo.